Agenti AI e lavoro umano: come cambia (davvero) l’organizzazione
Ecco come come l'AI può diventare un'alleata strategica per chi guida persone, riprogettando il futuro delle organizzazioni.
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🎤 Lo scorso 13 giugno a Rapallo, sul palco del 54° Convegno nazionale del Giovani Imprenditori di Confindustria ho presentato la finale di Talentis. Tra gli ospiti, sul palco è salito anche Simone Molteni che vi consiglio di andare ad ascoltare (qui un suo TED Talk) (lui davvero d’ispirazione sul tema sostenibilità). Insomma, una grande opportunità di confronto tra imprenditori e innovazione che mi rende orgoglioso.
🧭 Sono stato da pochissimo a Ginevra. Come tutte le città svizzere l’ho apprezzata davvero molto e la sua quiete è davvero fenomenale. Se passate di li, non potete non bere un GT in riva al lago e fare un salto al museo di Patek Philippe (anche se non siete amanti degli orologi, è davvero un’istituzione dell’eleganza nel mondo). Nel frattempo ho aggiunto qualche tappa interessante sul mio mapstr, lo trovi qui.
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La volta scorsa parlavamo di come l’AI stia cambiando il lavoro. Ruoli che si spostano, competenze che evolvono, nuove sfide per le professioni creative.
Ma c’è un passaggio ulteriore che oggi voglio esplorare con voi.
Cosa succede quando l’AI non è più solo uno strumento, ma diventa un “collega” vero e proprio?
Con l’arrivo degli AI Agents, entra nelle organizzazioni qualcosa di diverso: un soggetto attivo, capace di osservare, decidere, agire. In autonomia.
Sono sistemi in grado di comprendere un obiettivo, valutare cosa fare, mettere in fila le azioni giuste, portarle a termine e imparare dall’esperienza. In pratica possiamo chiamarli “colleghi artificiali”. Possono scrivere report, gestire mail, analizzare dati, dialogare con i clienti, monitorare KPI e perfino prendere decisioni. In base a come sono progettati, possono farlo in autonomia. 24h su 24, senza stancarsi e con un margine di errore prossimo allo 0.
È una rivoluzione? Sì. Ma non è una sostituzione. È una ridefinizione del lavoro. Del suo significato. Dei ruoli. E anche del valore specifico dell’essere umano.
Lavorare con l’AI, non contro
🧠 In questa nuova fase, l’AI non toglie solo compiti. Cambia il perimetro stesso di ciò che chiamiamo lavoro.
Alcune attività diventano automatiche per davvero: analisi ripetitive, generazione di contenuti standardizzati, gestione di flussi.
Altre, invece, diventano più preziose: la relazione, il giudizio etico, la creatività, l’intuito, la capacità di vedere le sfumature. Tutto ciò che una macchina non riesce a replicare.
In mezzo, c’è l’organizzazione. E poi c’è la necessità di fare un passo in più: non adottare tecnologie, ma ripensare i processi.
Il tema centrale, a livello di progettazione è proprio quello di non inserire strumenti nei vecchi flussi, ma disegnare flussi nuovi. Dove umani e agenti AI convivono, si aiutano, si supervisionano.
“Il futuro dell’IA non riguarda la sostituzione degli esseri umani, ma il potenziamento delle capacità umane.”
Sundar Pichai - CEO di Google
Cosa cambia, concretamente?
Per prima cosa, servono nuove competenze.
Non si tratta di diventare tutti esperti di AI, ma di capirne i meccanismi, i limiti, i rischi. Capire dove può essere utile, dove no, e come guidarla.
Questa forma di “alfabetizzazione AI” non è tecnica: è culturale. Deve riguardare tutti, non solo chi lavora in IT.
Cambia anche il concetto di team. Quando l’AI entra nei flussi decisionali, dobbiamo rivedere responsabilità, ruoli, processi di supervisione. Il modello human-in-the-loop diventa essenziale: la macchina propone, ma è l’umano che osserva, corregge, assume la responsabilità. È una forma nuova di leadership.
Poi c’è un tema che spesso passa in secondo piano, ma per me è centrale:
La relazione
Nessuna AI crea fiducia. Nessuna macchina sa motivare, ascoltare davvero, generare senso (quasi mai).
È lì che dobbiamo concentrarci. Il valore distintivo del lavoro umano sarà sempre più nella capacità di creare connessioni vere, conversazioni autentiche, contesti in cui le persone si sentono viste, comprese, libere di contribuire.
Il ruolo dell’HR in tutto questo è decisivo. Non può più limitarsi a gestire processi. Deve guidare il cambiamento culturale. Curare le soft skill, proteggere la qualità del tempo umano, disegnare spazi di formazione che non siano solo su “come usare l’AI”, ma su come restare umani nel lavoro.
C’è anche un aspetto delicato, ma non aggirabile: l’etica.
Ogni uso dell’AI pone domande su trasparenza, privacy, inclusione.
📌 Il rischio che l’AI amplifichi bias esistenti è reale. Per questo serve una governance chiara. Serve che l’HR, insieme al management, partecipi a comitati etici interni, definisca policy concrete, metta in piedi processi di verifica.
L’AI va addestrata, certo. Ma anche supervisionata, con continuità. E poi c’è la parte interessante.
Perché l’AI non riguarda solo l’efficienza. Può aumentare anche la profondità delle decisioni.
Nel mondo HR, per esempio, sta già cambiando il modo in cui vengono selezionati i candidati, analizzati bisogni formativi, raccolti feedback. Ma anche qui: la tecnologia non basta. Serve un modo nuovo di usarla, dove i dati non sostituiscono la valutazione , ma la potenziano.
Ma il punto vero, secondo me, è un altro
L’AI porta con sé una domanda sottile: se lei analizza, propone, decide e agisce… noi cosa facciamo?
Il rischio non è tecnico. È di senso.
E l’unico modo per non perderlo è metterlo al centro.
Smettere di parlare solo di performance, e iniziare a parlare di significato. Di agency. Di autoefficacia.
Agency significa sentirsi protagonisti attivi della propria esperienza, con la possibilità di scegliere e agire; un’attitudine che trova forza nell’autoefficacia, ovvero nella fiducia di avere le risorse per affrontare le sfide.
In un mondo ibrido, dove la tecnologia fa sempre di più, il nostro valore sarà sempre più legato alla capacità di restare connessi a ciò che ci rende umani. E questo riguarda anche il modo in cui affrontiamo la complessità.
Una lente che mi è utile è quella dell’antifragilità, proposta da Nassim Taleb.
Un sistema antifragile non solo resiste agli urti, ma si rafforza grazie a essi.
Credo che le organizzazioni dovranno imparare proprio questo: ad anticipare il cambiamento, a usarlo per allenarsi, ad accogliere le emozioni che emergono (compresa la paura), e a lasciare andare ciò che non serve più.
Per approfondire queste riflessioni, ho fatto a Silvia Basiglio, Psicologa del Lavoro e delle Organizzazioni, cinque domande per condividere il suo punto di vista.
Silvia si occupa di aiutare le aziende a creare ambienti in cui le persone possano esprimere il loro potenziale, e i risultati arrivino in modo sostenibile. Con lei, nell’intervista che segue, abbiamo approfondito il cuore della questione.
Cosa resta profondamente umano nel lavoro?
1️⃣ In uno scenario in cui l’intelligenza artificiale è in grado di analizzare, decidere e agire, qual è oggi il valore unico e non sostituibile del lavoro umano?
Guarda, il valore umano oggi più che mai sta nella nostra capacità di creare connessioni vere, di generare significato insieme e di agire con consapevolezza dentro contesti sempre più complessi e ambigui.
Per quanto possa essere evoluta, nessuna AI può davvero sostituire alcune qualità profondamente umane. Penso, ad esempio, all’ascolto autentico, a quell’intuizione che matura solo con l’esperienza, o ancora alla nostra presenza fisica, incarnata.
La profondità di una conversazione vera, l’empatia che si attiva in un conflitto, la sensibilità nel cogliere le sfumature… tutte queste cose richiedono qualcosa che va oltre il ragionamento logico: richiedono contatto, presenza, vissuto.
Spesso chiamiamo queste dimensioni “soft skill”, ma io credo siano tutt’altro che soft. Sono asset strategici, veri e propri pilastri del valore umano nel lavoro.
Ed è proprio per questo che dobbiamo curarle, allenarle, e metterle al centro della cultura organizzativa. Perché è lì che il lavoro umano può continuare a generare valore, anche – anzi, soprattutto – in un’epoca dominata dall’intelligenza artificiale.
2️⃣ Ecco, su questo punto: quali responsabilità dovrebbe assumersi oggi la funzione HR per guidare questa trasformazione in modo consapevole e generativo?
Eh, qui entriamo nel cuore della questione. Secondo me, l’HR oggi deve assumersi un ruolo di vera leadership culturale, non solo operativa o procedurale.
Che cosa vuol dire, in concreto? Vuol dire, ad esempio:
Essere promotore – e non solo esecutore – di policy etiche condivise, partecipando attivamente ai tavoli in cui si decide come usare l’AI.
Curare prima di tutto la formazione culturale, ancor prima di quella tecnica. Le persone hanno bisogno di capire cos’è l’AI, come funziona, sì… ma anche di sviluppare un senso critico, una fiducia consapevole.
Lavorare su una mappatura dei processi, per distinguere bene dove l’AI può davvero essere di supporto e dove invece serve – eccome – la supervisione umana.
E poi c’è un tema importantissimo: progettare nuovi ruoli ibridi. Penso, per esempio, a figure come lo Human-in-the-loop Supervisor, e a percorsi di crescita che siano coerenti con questi nuovi scenari.
3️⃣ Quando parliamo di cambiamenti profondi dentro le organizzazioni, emergono sempre concetti come agency, senso, autoefficacia. Ma come si fa, davvero, a coltivarli nei contesti di lavoro?
Bella domanda, e molto concreta. Io credo che tutto parta dalla possibilità, per le persone, di sentirsi davvero viste, ascoltate, coinvolte. Di poter contribuire in modo autentico, non solo adattarsi.
È lì che nascono senso, appartenenza, motivazione. È un processo che ha a che fare con la costruzione di significato di cui parlavamo poco fa.
E per realizzarlo servono alcune leve pratiche. Ti racconto quelle che uso spesso nei miei interventi:
Prima di tutto, il redesign collaborativo dei processi. Vuol dire coinvolgere direttamente chi lavora con strumenti di AI nella definizione concreta del loro utilizzo. Cosa significa? Significa co-progettare i flussi di lavoro, decidere insieme come e quando usare l’AI, così che le persone si sentano parte attiva del cambiamento e non semplicemente travolte da esso.
Poi c’è il tema del coaching e della formazione per responsabili e team leader. Qui si lavora tanto sulla consapevolezza del proprio ruolo, sul rapporto con l’organizzazione, e sulla qualità delle relazioni. In particolare, alleniamo la capacità di costruire dialoghi costruttivi – quelli che fanno crescere fiducia, responsabilità e senso condiviso.
Infine, propongo spesso spazi di confronto trasversale. Occasioni di dialogo tra funzioni e livelli diversi, dove si riflette su come sta cambiando il lavoro, si dà voce al vissuto delle persone, e si monitora il sentire organizzativo in tempo reale. Non solo per sapere com’è il clima, ma per andare in profondità.
Ecco, agency e autoefficacia non si insegnano con una lezione frontale: si coltivano. Con pazienza, creando spazi veri di condivisione, consapevolezza e responsabilità.
4️⃣ Un’idea che trovo molto utile per leggere la complessità di questo momento è quella di “antifragilità”, proposta da Nassim Taleb. Secondo te, cosa significa diventare antifragili nel lavoro e nelle organizzazioni?
Per me, diventare antifragili vuol dire – prima di tutto – accogliere il cambiamento come una palestra, non come una minaccia.
Un’organizzazione antifragile non cerca di tornare com’era prima: impara dagli urti, si adatta, lascia andare quello che non serve più, sperimenta, cambia forma… e diventa più forte.
In questo senso, nei miei interventi faccio spesso riferimento agli studi del team del dottor Giuseppe Vercelli, che ha approfondito il tema dell’antifragilità come risorsa interiore. Una risorsa che appartiene a ciascuno di noi e che si può attivare proprio attraverso il contatto con l’incertezza, con la complessità.
Hanno anche sviluppato uno strumento psicometrico validato – utile nei percorsi con i team – per valutare e allenare questa capacità, sia in ambito organizzativo che sportivo.
E c’è un altro aspetto importante: diventare antifragili significa anche integrare le emozioni nella cultura organizzativa. Non lasciarle fuori dalla porta, ma riconoscerle, ascoltarle e usarle come bussola per orientarsi nei cambiamenti.
5️⃣ Se potessi dare un solo consiglio pratico, proprio “da HR”, a chi oggi guida un’organizzazione che sta iniziando a integrare l’AI… cosa diresti?
Direi questo, senza dubbi: parti dalle persone, non dalla tecnologia.
Apri uno spazio in cui i team possano confrontarsi apertamente: sui processi, sui ruoli, sulle interdipendenze… ma anche sulle paure e sulle opportunità che vedono nell’AI.
L’integrazione tecnologica deve nascere lì, a partire dalla cultura, dai valori, dagli obiettivi che l’organizzazione già ha.
Non c’è – e non ci sarà – un modello unico valido per tutti. Ma è fondamentale che ciascuna organizzazione trovi il proprio modo. Un modo autentico, vissuto, compreso davvero dalle persone che ne fanno parte.
📚 Lettura per la settimana
McKinsey ha pubblicato un report che mi ha colpito molto: “Seizing the Agentic AI Advantage”.
Il report parte da una constatazione interessante: quasi tutte le aziende stanno usando l’AI, ma pochissime riescono a trasformarla in valore reale.
Il motivo? La maggior parte dei progetti si limita a “mettere AI sopra” i vecchi processi, senza cambiare nulla davvero.
La proposta è radicale (e condivisibile): serve ripensare i flussi da zero, disegnando un nuovo modo di lavorare dove agenti AI e persone collaborano, si supervisionano, si completano.
Qualche punto che mi porto a casa da questa newsletter:
Gli AI agent non sono solo assistenti: prendono decisioni, agiscono, apprendono. Cambiano tutto.
Il nodo più difficile non è tecnico, è culturale: serve fiducia, leadership, formazione, governance.
Il vero salto non è fare “più veloce”, ma ripensare il senso del lavoro e il ruolo delle persone.
Il cambiamento va guidato dall’alto, con una visione chiara. Non si può delegare tutto al team
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